1996

Dalla violenza sessuale al femminicidio

Dopo un iter lungo quasi vent’anni e animato da discussioni sociali e politiche, la legge 15 febbraio 1996, n. 66 “Norme contro la violenza sessuale” rappresenta uno spartiacque nella storia italiana: da reato contro la pubblica morale e il buon costume, la violenza sessuale è configurata dal punto di vista giuridico come reato contro la persona.

Suo principale promotore è il movimento femminista, che individua nella sfera della sessualità un fronte della battaglia per l’autodeterminazione femminile. Nel 1979, infatti, il Mld-Movimento di liberazione della donna, l’Udi, il Collettivo di via Pompeo Magno e la rivista “Effe” (a cui si aggiungeranno altri collettivi e riviste) danno vita a un comitato di scopo per proporre una legge di iniziativa popolare sulla violenza sessuale, raccogliendo 300.000 firme rispetto alle 50.000 necessarie. Verso la fine degli anni Novanta, nel momento stesso in cui, finalmente, la “violenza sessuale” viene concettualizzata come fattispecie giuridica e riconosciuta come delitto contro la persona, il linguaggio pubblico comincia a preferire la declinazione “violenza maschile contro le donne”, spostando l’attenzione sugli autori della violenza, e non solo sulle vittime. Oggi sono entrate nel linguaggio corrente le espressioni “violenza di genere” e “femminicidio” in riferimento alla posizione diseguale che gli uomini e le donne occupano da secoli nella società. La qualificazione “di genere” chiama in causa la dimensione politica della violenza maschile, cioè il suo essere espressione e strumento di conservazione di modelli di genere tradizionali, funzionali alla sopravvivenza della famiglia patriarcale. Tanto è vero che in gioco ci sono non solo la libertà sessuale ma anche i ruoli familiari, le gerarchie nelle relazioni private, la divisione dei compiti di cura, l’autonomia delle donne.

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